Nella accezione comune la parola genitorialità (o parenting, termine inglese di uso piuttosto comune) rimanda sia ad una fase di sviluppo individuale (con il raggiungimento della capacità di generare un altro individuo da nutrire, amare e proteggere), sia al compito di allevare i figli, con tutte le responsabilità e le attività che questo comporta.

Negli ultimi anni, tuttavia, la ricerca clinica psicologica e la Neurobiologia dell’Attaccamento – specie per quanto riguarda il ruolo dell’ossitocina nel tradurre le prime esperienze precoci madre-figlio, come l’allattamento, in modificazioni comportamentali a breve e a lungo termine (D. Marazziti, ‎2008), o gli studi neurobiologici sulla risposta materna associata al viso del bambino – hanno ulteriormente ampliato e raffinato il senso di questa parola, arricchendola e cogliendone le caratteristiche di vero e proprio processo intrapsichico e relazionale.

Diventare genitori

La realtà è che, diventando genitori si cambia. Profondamente.

E non solo perché nel proprio ciclo di vita si apre una nuova fase evolutiva, segnata dallo spostamento dell’investimento da sé a un altro che richiede attenzioni esclusive; e neanche perché sul piano pratico si è costretti a riorganizzare il proprio stile di vita nei suoi aspetti relazionali, sociali ed economici. Il cambiamento più significativo avviene, inevitabilmente, con una profonda revisione dei propri modelli di funzionamento mentale ed emotivo, ri-vedendo e ri-considerando l’idea di sé costruita nel tempo, a partire dalla propria infanzia e nel rapporto con i propri genitori.

Il nuovo legame con il figlio porta, cioè, a ridisegnare la trama dei propri affetti e dei significati ad essi associati. È molto interessante, a questo proposito, il concetto di “lutto di sviluppo” (B. Cramer e F. Palacio-Espasa, 1993) che bene esprime come la nascita di un bambino determini il distacco dalla propria condizione di figlio, e solleciti, di norma, una identificazione con i propri genitori e un confronto con essi e con la propria storia da figlio.

Infine, e non certo elemento trascurabile, la presenza di un bambino introduce condizioni diverse nel legame di coppia, perché sollecita la ricerca di una nuova organizzazione affettiva nel rapporto coniugale e, nello stesso tempo, propone una grande sfida: l’esercizio della cogenitorialità, un processo bidirezionale e reciproco che va molto oltre la semplice somma dei ruoli materno e paterno. E, a volte, si procede per strade difficili, costellate di ambivalenze e profondi coinvolgimenti emotivi, di riattivazione di vissuti di abbandono, di affioramento di conflitti, fino a veri e propri momenti di crisi.

Cos’è la genitorialità?

La genitorialità, quindi, è un processo e non una semplice “competenza” acquisita una volta per tutte e valida in ogni condizione: se essa, infatti, nella sua funzione trasformativa, implica per il genitore la necessità di cambiare e adattarsi continuamente alle esigenze sollecitate dalle diverse tappe evolutive del figlio, inevitabilmente attiva risorse, ansie o, anche, aspettative negative derivanti dai modelli di relazione sperimentati dal genitore stesso con la propria madre, con il proprio padre, o con i fratelli. E tutto questo contribuisce al formarsi dell’idea che ognuno si crea del proprio figlio e di se stesso come genitore.

Per questo, forse, è più giusto parlare di funzione, piuttosto che di semplice ruolo genitoriale; serve a restituire spessore a qualcosa di molto complesso che al di là degli aspetti di generatività biologica, comporta l’avventurarsi in un territorio inesplorato con tutte le proprie disponibilità.  È la capacità genitoriale di percepire, leggere e rispondere in modo adeguato, sintonico e prevedibile alle necessità psico-affettive del figlio ciò che permette a quest’ultimo di manifestare i propri stati d’animo in un contesto relazionale accogliente e validante e di imparare a sua volta ad ascoltare, interpretare e regolare i propri stati emotivi interni. In questa direzione, la Teoria dell’Attaccamento (J. Bowlby 1969-1982), che è essenzialmente una “teoria della regolazione”, e i successivi sviluppi delle neuroscienze ci danno un contributo fondamentale per comprendere quanto i rapporti affettivi genitore-figlio, all’interno di una relazione primaria di accudimento, possano facilitare o meno la maturazione dei sistemi cerebrali coinvolti nella stimolazione affettiva e nell’autoregolazione.

Si comprende meglio, così,  come i diversi fattori in gioco – la storia personale del genitore, le sue risorse emotive, cognitive e relazionali, il contesto sociale ed economico, più o meno favorevole,  in cui vive, il tempo e lo spazio della ‘mente’ in cui si è venuto a creare il desiderio o l’accettazione di un figlio, la possibilità di contare nella coppia sul sostegno reciproco, le caratteristiche del bambino stesso (temperamentali, di adattamento, biologiche e genetiche) – si intreccino e si influenzino reciprocamente, costituendosi, nel tempo, quali elementi di rinforzo o di indebolimento nello svolgimento di questa delicata funzione (Modello Multifattoriale della Genitorialità di Belsky-Crnic-Gable 1995).

La funzione genitoriale

Da tale prospettiva, la genitorialità o, meglio, la Funzione Genitoriale la si può immaginare declinarsi lungo un continuum che vede, ad un estremo, la possibilità di promuovere un sano sviluppo nel figlio (funzione regolativa propulsiva), e, all’estremo opposto, il suo possibile “utilizzo” in termini riparativi per tentare di risanare aspetti dolorosi della storia personale del genitore (funzione disadattiva). In quest’ultimo caso verrà limitata o compromessa la capacità di comprendere e rispondere adeguatamente ai bisogni del bambino, di proteggerlo e di accudirlo riconoscendolo come individuo ‘altro’ da sé; in altri termini di costituire per il figlio una ‘base sicura’ (J. Bowlby, 1988) da cui il bambino o l’adolescente possa partire per esplorare il mondo esterno e a cui possa ritornare, con la certezza di trovare nutrimento fisico ed emotivo, conforto e rassicurazione.

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